Arti Performative

Daniele Timpano/Elvira Frosini // Zombitudine

Renata Savo

Daniele Timpano ed Elvira Frosini elevano la metafora dello zombi a paradigma compositivo e concettuale di uno spettacolo in cui mescolano finzione e realtà per rappresentare i cliché di un teatrino ammuffito e di un’Italia cadaverica

Sono arrivati. Al Teatro dell’Orologio. Daniele Timpano, Elvira Frosini, e gli zombi. Anzi, loro, gli zombi, già c’erano prima di tutti. Prima di Elvira e Daniele, prima degli spettatori, prima che attraverso Romero arrivassero sul grande schermo.

Ma chi sono gli zombi? Che vogliono “questi” da noi?

Una grande ambiguità, paradigma compositivo e concettuale che permea lo spettacolo Zombitudine, come una matassa informe, un grande involucro, contiene, contiene fino a esplodere sulla scena, nei meandri oscuri di un teatrino ammuffito. Un luogo, un cadavere. Una vittima, come lo zombi, di un immaginario comune: tutti sanno cos’è, com’è fatto, quali sono le sue convenzioni, ma in pochi riescono ancora a onorarne la memoria, sempre meno lo frequentano. E non è affatto un caso che le prime idee sullo spettacolo siano nate proprio da un progetto condiviso con altri teatranti: Perdutamente. La residenza invernale nel 2012 di diciotto compagnie romane al Teatro India di Roma, per qualche tempo il rifugio di una comunità di individui, ha rappresentato la prima vera, reale fonte d’ispirazione per la coppia di artisti e di altri come loro che hanno eletto lo spazio scenico a piccolo baluardo della propria esistenza. Si inizia a fare teatro per scampare al reale, scegliendo una vita sacrificata, ma che permette di dare forma alla propria visione del mondo in un atto di condivisione con altri. Là si vorrebbe restare, se non fosse che all’esterno, fuori da quel mondo, non esiste alcuna certezza né per l’artista né per chiunque altro. Muoiono tutti, come nel peggiore film dell’orrore. Non si sceglie più, quindi. Si è costretti. La realtà è che perdutamente chiusi in questo “monduccio” rassicurante e inquietante al tempo stesso, “vuoto” e frequentato solo da “morti”, Daniele Timpano ed Elvira Frosini si domandano tra le righe se non fosse stato meno peggio barattare la non-vita con la morte.

Come per il teatro, lo stesso discorso vale anche per gli zombi: tutti sanno cosa sono, ma quasi nessuno conosce la loro provenienza (vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Zombie).

Si lavora, allora, proprio sullo scarto esistente tra quello che si sa e quello che significa per se stessi. Si può dire che il fulcro centrale della loro poetica da sempre sia afferrare gli immaginari comuni, i cliché, per ripresentarli in una forma che non si conosce, dando modo di scoprire cose nuove, di far entrare lo spettatore dentro l’oggetto d’indagine attraverso dei varchi inaspettati. Che si parli di storia, di rapporto con il cibo o della morte, poco importa. Ciascun oggetto rappresenta ugualmente una melassa di informazioni che si scioglie seguendo logiche personali – spesso autobiografiche. In Zombitudine lo spettatore realmente non sa cosa deve aspettarsi: se alla fine questi zombi arriveranno oppure no, se ad averla vinta, nell’economia dello spettacolo, sarà Aspettando Godot o il plot da film dell’orrore.

Gli spettacoli di Daniele Timpano ed Elvira Frosini da questo punto di vista sono un invito ad allargare lo sguardo. Perché se restiamo immobili, come lo spettatore seduto in poltrona, che “c’è” ma è come se non ci fosse, siamo perduti. Siamo morti. Perché proprio i cliché, le convenzioni, su cui il più delle volte basiamo la nostra conoscenza del mondo, sono cadaveri che ci trascinano verso il passato impedendoci di guardare avanti, al diverso-da-come-appare; e la superficialità con cui i media li alimentano è tale da indurre gli individui ad assimilare quella stessa “zombitudine” nelle loro vite. Lo zombi, né vita né morte, cammina, sì, ma a vuoto, per inerzia. Per questo nello spettacolo si viene a creare una strana sovrapposizione di ruoli, in scena come nella vita reale: tra chi riesce a imporre la sua visione delle cose dettando le regole (l’attore), e chi le subisce (lo spettatore). Così, quando finalmente arrivano, ci chiediamo se siano più “zombi” i performer che invadono la platea, innocui come sono, armati di sole parole appese a un cartello, o noi spettatori seduti in poltrona, impossibilitati realmente ad agire perché in trappola come loro; noi, che abbiamo appena assistito a uno sterminio, e restiamo comunque incapaci di prendere una posizione. L’immagine dello zombi, quindi, condensa, ricalca questa impossibilità di agire dentro il mondo reale, in questa Italia dove dalla parte del potere ci sono tutti contro tutti (e pronti a tutto); dicono tutto e il contrario di tutto con una faciloneria che non è estranea, volutamente, allo stesso spettacolo. Ma il vero dramma, forse, non è quello che stiamo vivendo oggi. Il vero dramma è che da tutto questo, noi, non risorgeremo. Ce ne distaccheremo. Come il vivo fa con il morto.


Dettagli

  • Titolo originale: Zombitudine

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