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“Socrate il sopravvissuto/come le foglie”: la ‘lectio’ teatrale degli Anagoor

Renata Savo

“Come le foglie che fa germogliare la stagione di primavera / ricca di fiori, appena cominciano a crescere ai raggi del sole, / noi, simili ad esse, per un tempo brevissimo godiamo / i fiori della giovinezza […]”.

Come le foglie è l’incipit della bellissima lirica del poeta greco vissuto nel VI sec a.C. Mimnermo, con cui veniva dipinta la stagione più viva dell’essere umano. Mimnermo poteva ritrovare nell’Iliade di Omero la stessa similitudine, che coincideva con la caduta dei soldati in guerra. Morte, gioventù, tempo: un trinomio che dall’antica Grecia, facendo un enorme balzo temporale, ricorre nello spettacolo degli Anagoor andato in scena dall’11 al 15 aprile al Piccolo Teatro Studio Melato, Socrate il sopravvissuto/come le foglie, in cui, ancora una volta, “come le foglie” è similitudine per l’uomo. Nello spettacolo del gruppo originario di Castelfranco Veneto, in particolare, convivono un’indagine sulla responsabilità di essere maestri e sul valore che la scuola e l’educazione assumono nel formare gli individui. Immagina, fra le numerose cose, di ripercorrere le ultime ore di vita del più grande maestro di pensiero che l’Occidente abbia mai conosciuto e incrocia la sua vicenda esemplare con un’ispirazione letteraria, il romanzo di Antonio Scurati Il sopravvissuto (2005), che a sua volta riscrive un fatto realmente accaduto ambientandolo altrove, in Italia, la strage della Colombine High School negli Stati Uniti (1999) per mano di due studenti, che accesero il fuoco su docenti e compagni di classe.
Nel romanzo di Scurati, il giovane diplomando Vitaliano Caccia si presenta al colloquio del suo esame di Stato in ritardo decidendo di sparare alla commissione e uccidendo l’intero corpo docenti meno che il professore di filosofia. Quest’ultimo, sopravvissuto, appunto, si fa narratore dell’accaduto fino ad arrivare alla paradossale conclusione di esser stato lui stesso l’ispiratore del folle gesto.
In Socrate il sopravvissuto/come le foglie, sulla scena si trovano nove banchi di un’aula scolastica. Il maestro (Marco Menegoni) sta di spalle, al confine tra ribalta e platea, come una metafisica presenza che congiunge spazio mentale e spazio della memoria collettiva; rappresenta una figura liminale anche perché possiede conoscenza, del passato, e peso del futuro.
Una successione di quadri temporali scandisce la drammaturgia, il primo è ambientato nel maggio 2001. Maggio. Il mese in cui – parafrasa il maestro – i programmi scolastici si riducono per effetto di una corsa sfrenata a una sterile lista di guerre e genocidi: la Seconda Guerra Mondiale, il genocidio in Ruanda, i regimi sudamericani, le guerre dell’ex-Jugoslavia, quella in Sierra Leone, e in Cecenia, per non parlare del conflitto arabo-israeliano sulla striscia di Gaza. Mentre ciò viene pronunciato, la messa in scena si pone come un invito alla riflessione attraverso l’esperienza di un tempo “altro”, lavora su un livello di evocazione, di suggestione, e per questo ci mette di fronte a una serie di visioni ieratiche, quasi profetiche. Sono tante, infatti, le domande che scaturiscono dalla fruizione, si muovono interiormente, ribollono, incidono, nella coscienza dello spettatore: un’evoluzione storica di questo tipo possiamo ancora chiamarla “evoluzione”? che fine ha fatto l’uomo? perché all’alba del nuovo millennio ci trasformiamo ancora nei fautori di questa devastante violenza? com’è potuto accadere?

Foto di Meri Cannaviello

La risposta sembra risiedere nell’educazione, nei processi di costruzione dell’identità, individuale e collettiva; e in questo la scuola dovrebbe rappresentare, assieme alla famiglia, il principale strumento.
Nell’aula-palcoscenico, gli studenti-attori sono presenze mute, simili a vegetali; stagnanti, assopite, sprofondano tra i banchi come nelle sabbie mobili, sempre mantenendo un rigoroso controllo fisico, e lentamente, in maniera quasi impercettibile, si congelano in pose scomode durante il crescendo sonoro – curato con forte presa emotiva, da Mauro Maritinuz – fino a rialzarsi nel silenzio. E poi, si continua, si va indietro. Ottobre 2000. Giugno 1999. Andare a ritroso per risalire alle cause. Il procedimento non è casuale. Semmai causale. Nell’aria si sente un odore di carta invecchiata, bruciata. Uno ad uno sfilano i giovani attori. Tra le mani hanno cumuli di libri usati, consumati, strappati, bruciati, che vengono scaraventati a terra a creare un unico mucchio. Libri che perdono la loro funzione. Feticci. Oggetti vintage su cui compiere riti di ogni tipo. Libri imbevuti d’acqua. Libri con cui sotterrare il corpo di una ragazza. Libri come foglie secche cadute da un albero, diventate pattume. Dove sono i saggi, la poesia, i racconti? Che cosa resterà della nostra capacità di analisi quando tutto ciò che leggeremo lo faremo scorrendo solo le palpebre su uno schermo piatto?

La regia di Simone Derai stimola, pungola, apre lo sguardo con intelligenza, crea uno spazio evocativo tridimensionale. Sublime e puntuale, infatti, la dialettica tra tempo rappresentato e spazio agito, tra video di Simone Derai e Giulio Favotto e il palcoscenico, dove si raccontano gli ultimi istanti di vita di Socrate descritti nel Fedone di Platone. Le inquadrature sono doppiate e sonorizzate dal vivo in ogni loro aspetto, vocale e “concreto”. I personaggi in video, mascherati (le maschere sono di Silvia Bragagnolo e Simone Derai), sono creature di un teatro virtuale nel teatro reale in cui ci troviamo; raccontano una storia ambientata in un’epoca in cui il teatro era “appena” nato e aveva lo stesso valore di una lezione di civiltà. Socrate, analogamente al “sopravvissuto” del romanzo di Scurati, restò schiacciato dai propri insegnamenti, fu accusato di corrompere le menti degli allievi con la sua filosofia, e per questo condannato a morte; condanna che però fu in grado di trasformare in una leggendaria lezione di vita per i suoi allievi, restando imperturbabile di fronte alla pena, non temendo la morte perché la sua anima sarebbe sopravvissuta al trapasso. Dalla veste particolarissima e ricercata è pure la lectio teatrale degli Anagoor: il contenuto è limpido, ma non per questo didascalico nella somministrazione. A nessuno piace la medicina, quando ha il sapore della “medicina”, così come la scuola, la vera scuola, non dovrebbe portare il suo nome, ma cambiare, non apparire come un “obbligo”, un peso o una condanna – per l’allievo e per il maestro – ma insinuarsi nel flusso della vita, essere vita a sua volta. Ricominciamo allora da qui, da questo spazio di riflessione che chiamiamo teatro, per costruire la coscienza civile. Nel bel lavoro degli Anagoor, il messaggio, se non esplicito, c’è, si avverte, si respira.

 

SOCRATE IL SOPRAVVISSUTO/COME LE FOGLIE
dal romanzo “Il sopravvissuto” di Antonio Scurati
con innesti liberamente ispirati a Platone, Cees Nooteboom e Georges I. Gurdjieff
regia Simone Derai
con Marco Menegoni, Iohanna Benvegna, Marco Ciccullo, Matteo D’Amore, Piero Ramella, Margherita Sartor, Massimo Simonetto, Mariagioia Ubaldi, Francesca Scapinello/Viviana Callegari/Eliza Oanca
costumi Serena Bussolaro e Simone Derai
musiche e sound design Mauro Martinuz
video di Simone Derai e Giulio Favotto
con Domenico Santonicola (Socrate), Piero Ramella (Alcibiade), Francesco Berton, Marco Ciccullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro, Massimo Simonetto
maschere Silvia Bragagnolo e Simone Derai
riprese aeree Tommy ilai e Camilla Marcon
concept ed editing Simone Derai e Giulio Favotto
direzione della fotografia e post produzione Giulio Favotto / Otium
drammaturgia Simone Derai e Patrizia Vercesi
produzione Anagoor 2016
co-produzione Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies e con il supporto di Bando ORA! Linguaggi Contemporanei produzioni innovative



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