Arti Performative

Marco Ceccotti // Questa splendida non belligeranza

Renata Savo

A Roma la situazione teatrale non gode di ottima salute. L’aria che si respira è di grande stanchezza. Non è una novità, ma forse si stava meglio quando si stava peggio: basti ricordare, una per tutte, che un teatro storico e importante come il Teatro Eliseo attualmente è in vendita per 24milioni di euro. Certo, non mancano buone notizie, come la ripresa delle attività di spettacolo del Teatro Argot, dove in questi giorni è in scena Il bambolo con Linda Caridi, ma la pandemia ha dato il colpo di grazia ai luoghi di spettacolo nella capitale, e per un censimento di questi spazi, rimandiamo volentieri alla ricerca pubblicata da Simone Pacini su “fattiditeatro”. L’unico teatro che si muove in controtendenza, spiccando per ciò che dovrebbe essere la norma, ovvero realizzare attività di spettacolo con continuità e allo stesso tempo fornire occasioni di incontro e di arricchimento umano, si trova in periferia. È il Teatro Biblioteca Quarticciolo che, messo a confronto con il marasma attuale della vita teatrale cittadina, pare così attraversare una fase di rifioritura dal vivo dopo gli inverni difficili della pandemia. L’offerta culturale spazia tra i linguaggi contemporanei, dalla nuova drammaturgia alla performance, passando attraverso la danza.

Proprio qui qualche tempo fa, in collaborazione con la nuova stagione di Fortezza Est (anche questa una piacevole sorpresa degli ultimi mesi, l’apertura coraggiosa di un nuovo spazio vitale per le arti sceniche), è andato in scena uno spettacolo meritevole che replicherà il 18 febbraio al Teatro della Filarmonica a Corciano (Pg). Si tratta di un lavoro scritto e diretto da Marco CeccottiQuesta splendida non belligeranza con Giordano Domenico Agrusta, Luca Di Capua e Simona Oppedisano. Un titolo raffinato, per una commedia surreale sul tema dei rapporti familiari e dei conflitti esistenziali, quelli necessari, ricercati, auspicati nel percorso di formazione dell’identità di un individuo. La mancanza di un conflitto di questo tipo sta al centro della commedia: protagonisti un padre, interpretato da Giordano Domenico Agrusta, possente e perfettamente a suo agio sul palco, prima nei panni di un personaggio remissivo e poco contrastante, che scopriamo essere di mestiere decoratore di sanitari di lusso per dittatori sanguinari, e poi in quelli di Saddam Hussein (i costumi sono Stefania Pisano) per arrivare attraverso strani percorsi della coscienza a trovare il coraggio di amare e lasciarsi andare all’espressione dei sentimenti; la madre, casalinga, un’avida lettrice di romanzi di Stephen King, dal carattere placido e accondiscendente fino a quando anche la ripetizione del medesimo gesto di affetto, il regalo prevedibile dei libri dello stesso autore, non diventa l’ennesima epifania di un indissolubile principio di banalità del quotidiano; e il figlio Luigi, il vero protagonista della pièce, ovvero un giovane sfaccendato che cerca di guadagnarsi da vivere raccontando finali di romanzi ad anziane signore in fin di vita. Il nucleo drammatico della vicenda consiste nell’atteggiamento del padre nei confronti degli altri due elementi: se questi si pone in modo remissivo nei confronti di Luigi, lo stesso non avviene con la moglie, contrastata di continuo nei suoi desideri quotidiani, e in particolare respinta a ogni richiesta di andare a cena fuori, al ristorante cinese, al punto tale da spingere lei a chiedere l’intercessione al figlio stesso: «il travaglio, il cesareo, le recite scolastiche, le gite alla centrale del latte, sono solo alcune delle cose che ho fatto per te in tutti questi anni e che mi sarei evitata più che volentieri. […] non potresti ricambiare il favore e chiedere a tuo padre ti portarmi al cinese? A te fa fare tutto». La noia cede il passo all’istinto vendicativo quando il marito sparisce e finalmente si prospetta per la donna una nuova fase, del tutto anarchica, all’interno del triangolo. Lo spettacolo, da non perdere, è una parodia brillante, sorprendente e irrazionale, di quelle storie famigliari in cui l’atteggiamento permissivo di un genitore impedisce a distanza di molto tempo di crescere e di realizzarsi come persone.



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